C’è un tema che scorre sotto traccia nelle discussioni e nella saggistica sulla “terza guerra mondiale”. Il tema è quello della considerazione storico-politica della guerra in contrasto con la tradizionale tesi filosofica basata sulla logica amico/nemico che non rende ragione di ciò che sta accadendo.
La guerra viene chiamata guerra “esistenziale”, come se i paesi in guerra e come se le 50 guerre e più nel mondo fossero combattute da paesi che si difendono perchè sono a rischio di scomparsa. Come se la guerra di Ucraina fosse stata iniziata dalla Russia perchè la sua identità nazionale rischiava di scomparire; ed è come se l’Ucraina dovesse essere difesa dall’Europa perchè è l’avamposto dell’identità occidentale, che se è mai esistita è da tempo scaduta.
Quasi allo stesso modo il genocidio che Israele sta compiendo viene giustificato come guerra esistenziale, la cui posta in gioco è la sopravvivenza dello stato, ma la realtà è che il paese più armato al mondo dopo gli Stati Uniti è a rischio di implosione per la sua stessa ferocia.
Più che considerare le guerre come episodi di reazione immunitaria dell’organismo nazionale attaccato da un virus e drammatizzare a fini di propaganda l’esistenza a rischio dello stato nazionale, con tutta la carica di ultranazionalismo religioso e di razzismo, è necessario, almeno sul piano dell’analisi, sottrarsi alla geopolitica della volontà di potenza e vedere come la realtà delle guerre eccede le frontiere nazionali, articola il discorso della guerra e la necessità del riarmo e produce una società di guerra in cui la retorica della difesa della patria, dell’identità nazionale, del suprematismo razziale e religioso, diventa un valore sociale. Questa retorica esiste come residuo propagandistico della politica che diventa “discorso di società”, che riproduce il consenso. E’ un discorso che circola, che fomenta reazioni e che aggiunge la riprovazione morale alle discriminazioni e al razzismo istituzionale.
Come già Michel Foucault aveva indicato, nell’epoca moderna la famosa affermazione di Clausewitz, della guerra come politica con altri mezzi si rovescia nella politica come guerra con altri mezzi. Questa indicazione permette di vedere il regime attuale di guerra come indice di una micropolitica delle popolazioni, cioè del comportamento politico di una variegata molteplicità di differenze singolari su cui si misura la lontananza delle popolazioni dalle prerogative dello stato nazionale, dai poteri di stato, e l’adesione alle decisioni dei governi. Al contrario della supposta spoliticizzazione delle popolazioni, l’insieme dei comportamenti, delle abitudini e delle pratiche di vita quotidiane sembrano assumere un immediato valore politico non in rapporto allo stato ma all’esercizio del governo.
L’esercizio effettivo del governo da parte dei mercati finanziari, delle piattaforme digitali e di un’economia che si basa sull’estrazione di risorse energetiche e ambientali su scala planetaria, trasforma il potere di stato nel governo reale delle popolazioni. Le relazioni con i luoghi e i tempi dello sfruttamento e della distruzione, e le diverse geografie territoriali non riferiscono la realtà degli stati, tantomeno delle nazioni, ma la realtà del governo dei viventi. La costituzione transnazionale dei poteri dissolve i confini amministrativi degli stati. Impiegate nel “doppio uso” civile e militare, per il controllo diffuso del territorio, producono uno stato di guerra permanente con finalità di prevenzione.
Gli effetti di queste trasformazioni della governamentalità che hanno investito l’economia globale, l’amministrazione dei territori e le istituzioni e che continuano ad avere effetti sulle persone, nella visione geopolitica vengono considerate dall’alto delle costituzioni statali e risultano compresse all’interno dei rapporti di forze tra gli stati nazionali che diventano immutabili, mentre la realtà politica della guerra compone alleanze contingenti tra “nemici” e dispone cambiamenti repentini delle relazioni tra gli stati che eccedono le prerogative della sovranità statale.
D’altra parte la guerra come tecnologia di governo delle popolazioni ha bisogno del discorso dello stato, della geopolitica degli stati nazionali e della mobilitazione continua delle retoriche dell’identità nazionale, della patria e dei valori, per articolare sul consenso il governo effettivo. Il consenso della minoranza votante della popolazione giustifica le decisioni di guerra dei governi.
Al di sotto, o ai margini della considerazione della guerra combattuta in esclusiva dagli stati, anche quando combatte contro la popolazione, si articolano processi, conflitti e relazioni di potere che non sono esercitati in nome dello stato, che non riconoscono nello stato la funzione di governo della guerra e che contrastano l’analisi geopolitica basata sui rapporti tra gli stati così come erano sanciti dal diritto internazionale.
Considerare la guerra all’interno dei rapporti sociali, di razza, di genere, consente di scartare la lettura geopolitica della guerra, delle alleanze, della deterrenza, della sicurezza e del riarmo, e riconoscere le differenze tra le guerre in un regime multiplo di guerra.
Nelle analisi raccolte nell’agile volume Nella terza guerra mondiale, i collettivi di Connessioni Precarie osservano la guerra da un punto di vista transnazionale superando l’idea politica della guerra combattuta nello scacchiere geopolitico. Questa lettura, che Papa Francesco aveva definito come guerra mondiale “a pezzi”, apre un campo di visibilità delle diverse forme di guerra, genocidio, pulizia etnica, guerra di conquista, guerra di frontiera in cui la logica dello sterminio assume un valore più preciso ed esteso che investe l’insieme delle popolazioni.
L’apertura di un campo di intelligibilità del governo della guerra in rapporto alla sicurezza, al territorio e alla popolazione, sottrae l’analisi al discorso della difesa, del riarmo, della necessità di identificare i nemici contro lo stato, e smonta le retoriche della patria, della difesa dei confini e degli interessi nazionali con cui la geopolitica giustifica la guerra su tutti i fronti: guerra ai migranti, guerra interna, guerra per la sicurezza, guerra sociale.
Inoltre, l’orizzonte transnazionale delle guerre apre uno spazio di analisi che revoca l’adesione integrale ad un campo e ad un fronte. “Campi” e “fronti” oscurano le infinite differenze soggettive e le molteplici posizioni di realtà e riducono l’esercizio della critica all’applicazione di categorie universali e all’identità politica a cui si aderisce.
Apertura di un campo di visibilità e rifiuto del “campismo” permettono di rovesciare il discorso della guerra come unica alternativa alla crisi e permettono di elaborare un altro senso del tempo presente. Connessioni Precarie scrive che ciò che interessa non è tanto come evitare l’estendersi della guerra ma come la guerra può finire. Il che significa spostare lo sguardo dagli interessi geostrategici e dall’esercizio del dominio, all’esercizio del bio-potere, per cercare nei corpi e nelle parole quanto vi è di ingovernabile.
In Ucraina la resistenza è stata arruolata nelle fila dello stato e rinforza militarismo e sfruttamento, eppure continuano ad esserci molti disertori, gruppi e associazioni che si sottraggono al fronte patriottico. In Israele e fuori da Israele ci sono singoli, collettivi, associazioni, intellettuali, scrittori, artisti che, a partire dalla realtà del genocidio si oppongono al sionismo suprematista di Netanyhau e accoliti, e sono considerati traditori, isolati, minacciati e ricacciati nella zona grigia dell’insieme della popolazione israeliana.
I due esempi eclatanti, che corrispondono peraltro alla realtà di ogni guerra, dimostrano che l’assegnazione di intere popolazioni a fronti universali è un’astrazione reale che continua la guerra con i mezzi della guerra. La realtà della “terza guerra mondiale” enuncia invece un altro principio di pratica politica, l’estensione delle relazioni tra le popolazioni sancite da un diritto.
Se la funzione della guerra è l’annientamento di persone, risorse, territori e intelligenza e se il discorso di guerra è discorso di superiorità etnica, di “identità nazionale” ed è propaganda suprematista, il contro-discorso del governo dei corpi e delle popolazioni, della molteplicità sociale, delle differenze soggettive e delle connessioni tra territori, costituzioni autonome e popolazioni, sottrae la guerra alla “presa” del discorso di stato, mostrandola per quello che è, – un insieme di tecnologie ibride di governo della vita.
Il contro-discorso del governo effettivo dei corpi: corpi migranti, corpi di giovani combattenti, corpi di bambini, corpi di donne, ma anche corpi sociali, precari, corpi di morti sul lavoro e di morti di lavoro, di carestia e di desertificazione, – sottrae le realtà della guerra al discorso di pacificazione e all’idea filosofico-politica che possa esserci pace senza conflitti, senza lotte, senza resistenze e senza pratiche di liberazione.
L’analisi della guerra come cattura dei corpi all’interno di rapporti di forza, di oppressione e di sfruttamento e come produzione e consumo di libertà, estende la considerazione dei concreti atti di guerra e di resistenza oltre le posizioni materiali e le categorie sociologiche della guerra e della pace. E sottrae la realtà attuale alle categorie filosofico-politiche della pace, da Bentham a Fichte, a Kant a Madison e a Rousseau o anche a Russell, cioè della pace come principio etico del genere umano.
L’appello all’antiimperialismo e all’internazionalismo suppone un ordine mondiale e un’unione di classe che non esistono. E’ il disordine e l’impossibilità di un governo mondiale, ed è una molteplicità frammentata di soggetti, economici, politici, commerciali, sociali ad aver da tempo scomposto qualsiasi pretesa di organizzare una classe.
Si tratta di superare il concetto di classe che non può più essere intesa come costituzione di un’identità operaia estesa a poveri, migranti, studenti, precari, e di osservare come le molteplici differenze di razza, genere, cultura, da tempo non si identificano nelle organizzazioni del lavoro e della produzione.
D’altra parte l’individualità familiare, etnica, sociale, sessuale e razziale, la precarietà e il disagio psico-sociale diffuso sono allo stesso tempo sintomi e moventi di un orizzonte visibile del mondo, che è l’estinzione, la distruzione dell’immaginario e l’imposizione di un regime del comando “senza alternative”, e tutto questo manifesta altro rispetto all’organizzazione del lavoro e alle pretese di costituzione di una classe.
Nella realtà transnazionale, le forme storiche del “governo del lavoro vivo appaiono impossibili”. Anche il concetto di lavoro vivo che nell’operaismo e nella realtà storica degli anni sessanta e settanta ha identificato lo sfruttamento di nuovi soggetti sociali, il conflitto all’esterno delle rappresentanze politiche e sindacali e “dentro e contro” il capitalismo, ha perso il concreto riferimento alla realtà.
Sono piuttosto molteplici realtà di transizione a far si che emergano proteste e insorgenze, resistenze e organizzazioni locali, movimenti transnazionali e autonomie territoriali, la cui posta in gioco non sono le condizioni di lavoro ma i poteri e le relazioni di potere sui corpi e sulle condizioni di esistenza.
La guerra mondiale è inscritta nell’instabilità e revoca i tentativi di governance mondiale in una realtà che lo storico dell’economia Giovanni Arrighi ha definito transizione egemonica, cioè un’epoca di caos mondiale al tramonto di un ciclo egemonico in cui si manifestano una serie di divergenze sistemiche. Si tratta piuttosto del disordine transnazionale che mostra tutti i limiti di categorie e teorie politiche di precedenti epoche storiche.
Non è dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 che la guerra ha assunto l’estensione planetaria dell’estrazione e del controllo di risorse; non è dal 7 ottobre 2023 che i palestinesi sono soggetti al regime di apartheid imposto dallo stato di Israele. Il disordine mondiale risale almeno ai primi anni novanta con la progressiva erosione delle relazioni internazionali post-belliche, l’implosione dell’URSS, l’estensione del libero mercato e della NATO all’est-Europa, la successione delle guerre umanitarie, delle guerre per il petrolio, delle guerre “africane”, della “guerra al terrorismo” dal 2001 e la successione delle crisi finanziarie.
D’altra parte in Europa la dismissione più o meno accelerata dello stato sociale a partire dagli anni ottanta ha generato alla fine del decennio successivo resistenze ed insorgenze, movimenti e indipendenze non riducibili ad un soggetto di classe, – insorgenze che, scrivono gli autori, «hanno posto in maniera del tutto nuova il problema del lavoro vivo».
Nuovi soggetti sociali nelle bainlieues, nei territori autogovernati in Chiapas e nelle autonomie precarie, migranti, lgbtqi+, hanno creato movimenti di rivolta e di diserzione dagli effetti nefasti delle politiche nazionali globalizzate, innescando conflitti in un mondo in cui esplodevano le forme di mediazione politica e le istituzioni internazionali.
Nel corso “Bisogna difendere la società”, Foucault dimostrava che nella storia europea della guerra, la guerra delle razze è stata assunta nel razzismo di stato. Oggi, la manifestazione più violenta di guerra delle razze è condotta sulla superfice transnazionale caratterizzata dall’impossibilità di imporre un ordine globale stabile e continuativo.
Ogni territorio investito da una guerra risulta confinato rispetto ai luoghi di guerra. Il governo del territorio che si esercita all’interno dello spazio delimitato dalle frontiere degli stati ma eccede le prerogative statali, riconfigura zone, aree, quartieri e periferie come spazi esterni allo stato, come spazi delocalizzati e come spazi extraterritoriali in stato permanente di emergenza.
La guerra ai confini territorializza i mari come luoghi di guerra ai migranti. La guerra genocidaria di Israele a Gaza e in Cisgiordania de-territorializza i territori palestinesi. L’invasione russa dell’Ucraina rivendica l’appartenenza dello stato ucraino allo stato russo, laddove la realtà multietnica dei territori del Donbass è stata territorializzata con l’ “euromaidan” del 2014 e rinforzata con l’estensione a est della NATO.
La guerra in Sudan deterritorializza e riterritorializza porzioni di territorio. La Libia, dopo la guerra della NATO che ha eliminato Gheddafi, è divenuta territorio di guerra senza stato ed è luogo di confino, di tortura e di morte dei migranti respinti dall’Europa.
La regione autonoma del Rojava, dopo la caduta di Assad è divenuto territorio instabile a rischio di conquista e distruzione delle autonomie curde da parte della Turchia.
D’altra parte, le istituzioni di autogoverno in territori autonomi sono minacciate perché sono esperienze politiche di costituzione non statale, già da tempo catturate dal narcotraffico e dalle economie criminali. Viceversa, aree metropolitane razializzate, negli Stati Uniti, in Europa, In Cina, in India, sono considerate come aree di rischio e militarizzate. Neri, ispanici, arabi, cinesi sono ridotti alla loro identità etnica e razziale e sono bersagli di provvedimenti di detenzione e di deportazione.
Connessioni Precarie scrive che il razzismo istituzionale opera in un doppio regime di esclusione: attraverso la mobilità della forza lavoro migrante che viene precarizzata e costretta in condizioni di vita miserabili; e attraverso il divieto di permanenza negli stati di arrivo, ove diritti, tutele e garanzie sono progressivamente ridotte anche per i cittadini residenti.
Il restringimento del diritto d’asilo, adottato nel 2024 dall’Unione Europea con il Patto su Migrazioni e Asilo, ha consegnato nelle mani degli stati le norme sui centri di detenzione, sui meccanismi di screening, sull’istituzione di zone extraterritoriali sottratte al diritto comunitario, su procedure accelerate di espulsione e accordi con paesi considerati “sicuri” per il trattenimento in lager e centri di tortura.
L’attacco al diritto d’asilo ha contribuito alla dismissione del diritto internazionale umanitario e dell’arbitrato internazionale sui crimini di guerra. La militarizzazione dei confini, la iper-giuridificazione delle procedure e dei criteri di selezione per l’accesso all’asilo e le deroghe alla rigidità di procedure legali per accelerare deportazioni di massa, sono dispositivi che consentono un surplus di arbitrio e di violenza e di prendere decisioni politiche che oltrepassano le decisioni delle corti.
D’altra parte nel Mediterraneo il controllo delle frontiere è legato alle politiche energetiche e climatiche. Il governo delle migrazioni che fuggono da carestie e desertificazione ha a che fare con la dismissione della cosiddetta transizione ecologica, a favore del riarmo e della ripresa dell’industria fossile. La guerra mostra la potente menzogna della transizione “verde” imbastita dalla Commissione Europea con la pandemia.
In realtà già prima del 2022 la transizione verde era il tentativo di «incollare una patina verde su politiche industriali, di ristrutturazione logistica ed estrattive». Le tecnologie “pulite” erano un insieme di strategie di investimento vòlte a sfruttare risorse energetiche e tecnologiche nel nuovo campo di sfruttamento di terre e risorse rare. La transizione verde era la leva per recuperare lo svantaggio competitivo nei confronti della Cina che ha il primato nella mobilità elettrica e solare, nei semiconduttori e nel controllo delle materie prime necessarie alla transizione. La guerra ha decuplicato il valore delle terre rare, il cui possesso è una delle poste in gioco strategiche per comprare “quote di futuro”.
La guerra d’Ucraina ha prodotto l’aumento vertiginoso della bolletta energetica e la guerra dei dazi ha reso più intensa la “sicurezza energetica”. L’Unione armata Europea si è subordinata ai diktat di Trump acquistando armi e gas naturale statunitense al quadruplo del prezzo di mercato.
Ma gli esiti disastrosi delle politiche appaltate alle industrie belliche nazionali, la dismissione dei programmi di conversione ecologica, i tagli al welfare e il negazionismo climatico non sono effetti del solo governo delle destre. Sono piuttosto effetti cumulativi di greenwashing e politiche di propaganda riguardo alla transizione ecologica.
Le politiche negazioniste delle destre sono state precedute da politiche climatiche ridotte ad annunci. Il vecchio Green Deal di Draghi prevedeva la mobilitazione di capitali privati e il Clean Industrial Deal prevedeva un mercato energetico europeo che si è scontrato con i nazionalismi degli stati in nome della sicurezza energetica. Il “piano Mattei” dell’Italia sfrutta la cooperazione per la transizione per consolidare l’accesso di ENI alle risorse energetiche dei paesi nord africani in direzione del fossile (fonte ReCommon.org) e rafforzare il divieto di migrazione.
Invece di affrontare le urgenze del dissesto idrogeologico, del degrado ambientale e della prevenzione di eventi climatici attraverso il monitoraggio, la gestione delle risorse e la progettazione di infrastrutture resilienti, le politiche europee hanno continuato a promuovere lo sviluppo industriale e l’agroindustria finanziati dai grandi fondi di investimento.
Blackrock si presentava come promotore della transizione verde orientando le aziende verso sostenibilità e decarbonizzazione, per poi dal Net Zero Asset Managers, l’alleanza internazionale del capitalismo per azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050, mentre continua a finanziare l’industria bellica israeliana.
I 20 maggiori investitori istituzionali hanno fornito a Israele 2,7 miliardi di dollari di finanziamenti. Pinco, Vanguard, Blackrock, State Street, Wellington Management, Franklin Resources, Capital group, ma anche l’italiana Bper con 99 miliardi di dollari ha comprato “war bond” israeliani (fonte “Altraeconomia”).
La crisi dell’automotive per gli enormi interessi delle multinazionali del petrolio e delle case automobilistiche, la maggior dipendenza energetica dell’Europa e il fallimento delle politiche green oltreatlantico, hanno facilitato il ritorno in grande stile al fossile e al nucleare.
Il potere sulla vita che la guerra manifesta mobilita l’insieme delle risorse materiali e psicofisiche disponibili. É a questo livello che appaiono i fenomeni essenziali di diserzione, di esodo e di destituzione dall’insieme delle condizioni di vita in cui tempi, spazi, territori e ambienti sono espropriati e sfruttati.
La “presa” sulla vita tramite estrazione ed espropriazione, sfruttamento intensivo e distruzione, se considerata dalla posizione della diserzione e delle realtà soggettive del “barbaro”, del nomade, dell’identità in transizione, costituisce un punto di osservazione sui soggetti reali e su una possibile immaginazione politica.
Migranti, femministe, studenti, precari, nei luoghi più intensi di sfruttamento economico, sessuale, sociale, nella comunicazione, nella logistica, nei lavori schiavistici, sono forme di vita la cui presenza e la cui eventuale connessione danno luogo in maniera discontinua, imprevista, non organizzata a momenti collettivi, lotte locali, proteste e iniziative transnazionali, come la Global Sumud Flotilla, a concatenamenti affettivi e a invenzioni politiche che rompono lo spazio di esistenza assegnato dal regime di guerra e di sicurezza imposto ai territori.
In questo senso il tema transnazionale supera antiimperialismo e internazionalismo non sostituendo il “locale” e i territoriale, ma infrangendo le identità a partire dalle differenze: femminista, indigena, post-coloniale, queer, ecoattivista, lgbtqi+.
A partire dal riconoscimento della forza come principio di governo delle popolazioni, ciò significa provare pratiche realmente conflittuali, che scartano il teatro di guerra, sospendono la logica di morte e provano a immaginare un diritto praticato direttamente dalle popolazioni.
Un diritto che non è il diritto dei popoli rappresentato e gestito dallo stato, ma un diritto della terra, un diritto dei viventi, un diritto all’abitare e alla mobilità, una pratica diretta di diritto non universalistico, ma da costruire in connessione con altri ambienti e altre popolazioni.
Transfemminismi, migrazioni, diserzioni, rifiuto di essere arruolati, non praticano l’equidistanza, rilevano invece le linee di conflitto all’interno e all’esterno degli stati. In questo senso disertare significa contrastare il regime di guerra in ogni luogo in cui manifesta i suoi effetti. Disertare significa rifiutare la coazione al lavoro, le gerarchie patriarcali e razziste, la violenza e l’autoritarismo che è penetrato da tempo nelle democrazie liberali e negli stati autoritari. Disertare è smontare il discorso di sicurezza che estende i poteri di polizia e comprime l’iniziativa politica in nome della libertà. La diserzione è l’alternativa di verità che razzismo, patriarcato ed esigenze belliche affermano come criteri di selezione e governo delle migrazioni, consolidando con deportazioni, detenzione, torture e omicidi il razzismo di stato.
Dal momento che la guerra impone la “pace sociale”, una politica transnazionale potrebbe produrre un lessico e un immaginario che assume la critica come campo generale di riflessione per conflitti “disarmati”. In questo senso uno sciopero transnazionale contro la guerra potrebbe produrre nuove pratiche e nuovo pensiero e potrebbe fare «delle differenze che dividono, il punto di forza del rifiuto della guerra che è rifiuto della coazione al lavoro, dell’autoritarismo e del razzismo».
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